27 anni dall’Alluvione di Cardoso

Oggi ricorre l’anniversario della tragica alluvione che devastò l’alta Versilia. 
Sono trascorsi ormai 27 anni ma il ricordo è indelebile. Furono 13 i morti, un disperso, oltre 60 feriti, più di 1500 gli sfollati.
Partecipai come soccorritore. 



Pur non essendo alla prima esperienza, intervenire a questa operazione di soccorso a questa calamità, si rivelò molto difficile e forte fu la impatto emotivo. I ricordi e le sensazioni sono sempre ancora vive  vorrei ricordarle In questa memoria che ripercorre quelle drammatiche ore.
“Arrivammo a Stazzema la mattina presto. 
I collegamenti i per Ponte Stazzemese erano interrotti. Azzardammo quasi da incoscienti a passare da una strada ormai in disuso che dal versante massese in parte in galleria sbucava proprio vicino al paese. Ci riuscimmo! Lo spettacolo che si manifestò in tutta la sua tragicità ci lasciò per un po’ immobili. Un paese sventrato da un docile torrente e un caos di fango. Soccorritori e abitanti persi nella disperazione. Mi ricordo nel caos di quell’alba che andammo al palazzo comunale e iniziammo a liberarlo dal fango e dai detriti affinché si potesse allestire un primo centro di coordinamento. Allora la Protezione Civile era agli albori, forse in Toscana è nata, come la intendiamo adesso, proprio lì, in quella calamità! Decidemmo di andare a Cardoso nonostante, nel caos tutti ci dicevamo che troppi ormai erano i soccorritori andati su, che era inutile. Fu un cammino difficile, il torrente Cardoso, che da il nome al paese, aveva portato via la strada. Anzi la strada stessa era diventata torrente. Più volte abbiamo dovuto attraversare la forte corrente, legati in corda, immersi fino alla vita. 
Entrammo a Cardoso attraversando un  varco aperto dal fiume tra due case. 
A sinistra il cimitero dove l’acqua aveva così scavato da riportare alcuni resti di bare alla luce dopo chissà quanto anni. A destra una fila di case “tagliate” dall’acqua, come segate da una grande motosega. Alcune stanze erano tagliate perfettamente a metà e rimaste impensabilmente intatte. I quadri appesi, un attaccapanni con ancora i cappelli riposti, un camino e una sedia in bella mostra con ancora i cellophane per la polvere sulla seduta. Proseguimmo avanti fino ad una casa, anzi fino a un tetto che ci sbarrava la strada. Un tetto a livello dei massi su cui camminavamo. Non riuscivamo a capire come fosse possibile.  Ci fermammo un attimo per realizzare il tutto! Capimmo che eravamo tra i primi soccorritori ad arrivare lì, che lo spettacolo era surreale, che tutti i sopravvissuti erano arrabbiati e disperati. Mancavano quattro persone tra cui un bambina. Organizzammo subito un piccolo campo base liberando anche uno spiazzo dai tronchi e dai detriti più grandi. Non si riusciva a comunicare via radio pertanto era difficile organizzare qualsiasi cosa. Poi, forse per intervento della divina provvidenza, con una radio di riserva sintonizzata su un’ improbabile frequenza riuscimmo a collegarci con la polizia provinciale riuscendo a comunicare la reale e drammatica situazione. Chiedemmo subito dei viveri e dell’acqua. Gli abitanti erano stremati, le case distrutte. Dalla sera prima alla ricerca di chi mancava, arrabbiati per il ritardo dei soccorsi. Non conoscevano la distruzione più a valle che gli raccontammo. 
Ci dividemmo per aiutare più persone. Mi ritrovai a scavare con le mani e con i pochi attrezzi fianco a fianco di un uomo silenzioso. Intento a cercare di aprire un varco di detriti che ostruiva la porta d’ingresso di una casa, non avevo compreso che quella non era la porta d’ingresso bensì la finestra al secondo piano. Realizzai che eravamo sopra ad oltre dieci metri di detriti. Tutto il paese era stato inondato da una quantità di detriti che in alcuni punti superava i 10 metri. Quel tetto che calpestammo era il tetto di una palazzina di due piani. Camminavamo sopra una quantità inimmaginabile di pietre, fango e ghiaia. Solo allora realizzai la vera entità di quello che era successo.
Riusciti ad entrare da quella finestra e da una piccola fessura scavata ci trovammo in una stanza per due terzi piena di fango e ghiaia. I mobili schiacciati contro il soffitto nello stesso ordine dell’originario arredamento. Eravamo sdraiati sui detriti fianco a fianco con il busto dentro a quella stanza, in silenzio. 
Quella era la sua casa mi disse più tardi. Era riuscito a salvarsi perché aveva sentito un boato ed era corso fuori evitando la slavina di acqua fango e rocce, raccontò. Aveva visto lui stesso scomparire in quello tsunami la bambina e la madre. Stavano fuori di quella casa di cui si vedeva solo il tetto. Continuammo le ricerche con una consapevolezza, non raccontabile, che poco c’era ormai da fare per quelle vittime disperse. All’improvviso un piccolo elicottero della forestale riuscì a raggiungerci e senza atterrare lanciò un po’ di viveri: latte, pane e acqua. Sgombrammo la piccola piazzola e riuscimmo  nel primo pomeriggio ad allargarla a tal punto da permettere agli elicotteri dell’esercito e dei vigili del fuoco di atterrare. Raggiungemmo alcune case isolate e colpite dalle molteplici frane mentre il ponte aereo si materializzava. A sera con l’ultimo viaggio di un elicottero ritornammo giù a valle. 
Ricordo che un attimo prima di salire trovammo libera dalla gabbia vicino alla strada due canarini uno giallo è uno verde. Li portammo via con noi. Uno non ce la fece,mori poco dopo, l’altro ha finito i sui giorni dopo anni vissuti nella voliera del parco Pertini a Livorno. 
Oggi a distanza di tanti anni ricordo ogni attimo, ogni istante di quei momenti. Sono tornato a Cardoso dopo la ricostruzione. Solo in quel momento ho veramente realizzato ciò che madre natura aveva realmente fatto! 
Il mio pensiero va da sempre a quella gente silenziosa ,dalla grande dignità. Una preghiera invece a quella madre e alla bambina invano cercate e poi ritrovate a chilometri di distanza a valle.”

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